lunedì 3 giugno 2013

LO JUS SOLI



 
Di Vito De Santis

 

Sulla questione dello “jus soli”, ci sono almeno due certezze. Primo: che il problema della cittadinanza ai bambini “stranieri” nati in Italia non può essere ignorato. Il problema c’è e va affrontato e, possibilmente, risolto. Secondo: non è certo un problema la cui soluzione possa essere affidata ad un governo bicolore e di passaggio. Questo è un nodo politico, più volte, e non a caso, posto sul tavolo dal primo dei nostri politici, e che nel dibattito tra i partiti dovrà trovare il modo di essere sciolto. A conferma che per varare un’ ICI può bastare un “banchiere”, ma su temi sensibili deve scendere in campo la politica. Meglio se quella buona. Detto questo, si pone il problema su quale soluzione dare. Di sicuro la legge attuale con i suoi paletti un po’ datati non risponde più alla fotografia della nostra società, fatta di ragazzi di ogni colore, nati nei nostri ospedali, istruiti nelle nostre scuole, inseriti nelle compagnie dei nostri figli. Può darsi che a casa mangino il Kebab, ma poi per strada parlano in dialetto. E allora, la domanda è inevitabile: sono italiani o arabi, turchi o senegalesi, o qualunque altra cosa? Devono aspettare fino ai 18 anni e aver vissuto ininterrottamente in Italia prima di fregiarsi di questo “titolo”, prima di uscire dal limbo? O è giusto che il diritto del suolo su cui vivono, possa prevalere su quello del sangue da cui emanano? E’ chiaro che la regola per cui se nasci in un posto, hai automaticamente la nazionalità con i doveri, e soprattutto i diritti che ne conseguono, non può essere un colabrodo. Lo siamo già abbastanza come Paese in tema di immigrazione per aggiungere un altro foro. Automatismi di questo tipo andavano bene nell’ America dei coloni che aveva bisogno di attirare gente da ogni parte del mondo, e di farla sentire immediatamente americana. Noi abbiamo bisogno certamente di nuova linfa, ma con flussi regolati e regole ben precise al momento dell’ ingresso e dopo. Se no, come ricordava ironicamente qualcuno, finisce che diventiamo la sala parto del terzo mondo: vengono qui, anche da clandestine, e fanno un figlio. Le madri magari le rimpatriano, mentre i bambini italiani restano a nostro carico. Si estremizza ovviamente. Ma non è un caso che in tutta l’ Europa, esclusa la Francia, valga lo jus sanguinis e non lo jus soli. Con correttivi e facilitazioni, però. Quelli che appunto mancano, o sono carenti, nella attuale legge italiana. Allora, forse è bene evitare le barricate ideologiche (ed elettorali) della Lega, così come le aperture sbracate di quella sinistra estrema e di un certo mondo cattolico che non hanno mai un dubbio: tra un disgraziato italiano e uno straniero, la preferenza va sempre al secondo. Ricordando ovviamente che i migranti non vanno in conflitto con i benestanti dei centri storici, ma con i proletari delle periferie. Dunque, per quello che mi riguarda, è bene che l’ attuale criterio che fa prevalere il sangue sul suolo, sia mantenuto. Ma, come detto, con l’ elasticità ora assente. Portando a meno di 18 anni l’ età per ottenere la cittadinanza, ad esempio, o stabilendo un periodo limitato di permanenza dei genitori sul territorio (in Germania sono 8 anni) perché il figlio possa nascere italiano. Un equilibrio politico. Che sta forse in mezzo a una interpretazione estensiva del nobile appello del Presidente Napolitano (<<E’ una follia che i figli si immigrati nati in Italia non sia cittadini>>) e il meno nobile (<<Faremo le barricate>>) del Carroccio. Perché è vero che oramai, bianchi, neri o gialli, siamo tutti italiani. Ma è altrettanto vero che tra un Paese accogliente e un colabrodo, una differenza c’è. Ed è meglio che resti

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