Di Vito De Santis
Sulla questione dello “jus
soli”, ci sono almeno due certezze. Primo: che il problema della cittadinanza
ai bambini “stranieri” nati in Italia non può essere ignorato. Il problema c’è
e va affrontato e, possibilmente, risolto. Secondo: non è certo un problema la
cui soluzione possa essere affidata ad un governo bicolore e di passaggio.
Questo è un nodo politico, più volte, e non a caso, posto sul tavolo dal primo
dei nostri politici, e che nel dibattito tra i partiti dovrà trovare il modo di
essere sciolto. A conferma che per varare un’ ICI può bastare un “banchiere”,
ma su temi sensibili deve scendere in campo la politica. Meglio se quella
buona. Detto questo, si pone il problema su quale soluzione dare. Di sicuro la
legge attuale con i suoi paletti un po’ datati non risponde più alla fotografia
della nostra società, fatta di ragazzi di ogni colore, nati nei nostri
ospedali, istruiti nelle nostre scuole, inseriti nelle compagnie dei nostri
figli. Può darsi che a casa mangino il Kebab, ma poi per strada parlano in dialetto.
E allora, la domanda è inevitabile: sono italiani o arabi, turchi o senegalesi,
o qualunque altra cosa? Devono aspettare fino ai 18 anni e aver vissuto
ininterrottamente in Italia prima di fregiarsi di questo “titolo”, prima di
uscire dal limbo? O è giusto che il diritto del suolo su cui vivono, possa
prevalere su quello del sangue da cui emanano? E’ chiaro che la regola per cui
se nasci in un posto, hai automaticamente la nazionalità con i doveri, e
soprattutto i diritti che ne conseguono, non può essere un colabrodo. Lo siamo
già abbastanza come Paese in tema di immigrazione per aggiungere un altro foro.
Automatismi di questo tipo andavano bene nell’ America dei coloni che aveva
bisogno di attirare gente da ogni parte del mondo, e di farla sentire
immediatamente americana. Noi abbiamo bisogno certamente di nuova linfa, ma con
flussi regolati e regole ben precise al momento dell’ ingresso e dopo. Se no,
come ricordava ironicamente qualcuno, finisce che diventiamo la sala parto del
terzo mondo: vengono qui, anche da clandestine, e fanno un figlio. Le madri
magari le rimpatriano, mentre i bambini italiani restano a nostro carico. Si
estremizza ovviamente. Ma non è un caso che in tutta l’ Europa, esclusa la
Francia, valga lo jus sanguinis e non lo jus soli. Con correttivi e
facilitazioni, però. Quelli che appunto mancano, o sono carenti, nella attuale
legge italiana. Allora, forse è bene evitare le barricate ideologiche (ed
elettorali) della Lega, così come le aperture sbracate di quella sinistra estrema
e di un certo mondo cattolico che non hanno mai un dubbio: tra un disgraziato
italiano e uno straniero, la preferenza va sempre al secondo. Ricordando
ovviamente che i migranti non vanno in conflitto con i benestanti dei centri
storici, ma con i proletari delle periferie. Dunque, per quello che mi
riguarda, è bene che l’ attuale criterio che fa prevalere il sangue sul suolo,
sia mantenuto. Ma, come detto, con l’ elasticità ora assente. Portando a meno
di 18 anni l’ età per ottenere la cittadinanza, ad esempio, o stabilendo un
periodo limitato di permanenza dei genitori sul territorio (in Germania sono 8
anni) perché il figlio possa nascere italiano. Un equilibrio politico. Che sta
forse in mezzo a una interpretazione estensiva del nobile appello del Presidente
Napolitano (<<E’ una follia che i
figli si immigrati nati in Italia non sia cittadini>>) e il meno
nobile (<<Faremo le
barricate>>) del Carroccio. Perché è vero che oramai, bianchi, neri o
gialli, siamo tutti italiani. Ma è altrettanto vero che tra un Paese
accogliente e un colabrodo, una differenza c’è. Ed è meglio che resti
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